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martedì 19 ottobre 2010

Mi spiace, ma la questione è proprio “etnica” e di genere


 Il caso dell’uccisione da parte di Alessio Burtone dell’infermiera Maricica Hahaianu nella stazione Anagnina della metro A di Roma ha avuto ampio risalto nelle pagine dei giornali, in radio, televisione e su ogni altro mezzo di comunicazione. La storia è estremamente drammatica nella sua banalità (una nuova versione della banalità del male, potremmo dire) e sembrerebbe una di quelle tragiche “fatalità” dettate dall’anomia della vita urbana, da un sistema di relazioni sociali del tutto vuoto di contatti personali e quindi ridotto a puro scambio economico. Sicuramente questa componente non può essere trascurata, e non c’è dubbio che la vita nelle metropoli è caratterizzata da un aumento di violenza apparentemente gratuita, ma credo che questo caso specifico debba essere investigato anche nella sua componente “etnica”, che non è affatto marginale come invece sembrerebbero supporre molti commentatori e politici, che hanno parlato di un caso di violenza che non va assolutamente spiegato in termini di razzismo o di tensione etnica.
Da antropologo, non sono affatto d’accordo con questa lettura riduttiva e consolatoria di quel che è successo, e vorrei spiegare in sintesi la mia posizione.
Gli antropologi tendono a distinguere chiaramente il loro giudizio sulla realtà da quel che della realtà dicono e pensano le persone studiate nell’indagine, anche quando questo “dire” è sostanzialmente implicito. Anzi, il compito specifico della ricerca etnografica, spesso, consiste nel rendere esplicito una visione “indigena” della realtà che l’antropologo in quanto tale può non condividere affatto e che i soggetti investigati possono far fatica ad articolare verbalmente. Senza questo atteggiamento, qualunque studio sulle credenze religiose e sulle visioni del mondo sarebbe impossibile oppure insensato. Un antropologo, cioè, non ha bisogno di credere in un particolare sistema religioso per poterlo studiare, ma ha invece il dovere di ricostruire “dall’interno” o, come si dice con una formula consolidata, “dal punto di vista del nativo” il sistema di credenze che sta studiando. È solo quella ricostruzione che ci potrà dare il senso culturale di un evento, vale a dire il significato così come è vissuto dagli attori sociali.
Sono fermamente convinto che “dal punto di vista dei nativi” (in parte senza una piena consapevolezza) il caso drammatico della stazione Anagnina sia stata causato dalla reciproca visione che “gli italiani” hanno dei “romeni” e che “gli uomini” hanno “delle donne”.
Almeno dall’epoca delle grandi “scoperte” geografiche, il cosiddetto Occidente ha guardato ai rapporti con le nuove culture con cui veniva in contatto sovrapponendo al confronto culturale un confronto di genere sessuale. L’altro, intendo dire, è stato spesso visto alla luce o dentro il simbolo della differenza di genere (maschile/femminile) proiettando quindi nella relazione culturale alcuni giudizi già presenti nelle relazioni di genere. Yoko Ono disse un giorno che le donne sono i negri del mondo, per intendere che nei rapporti verso le donne, gli uomini tendono a comportarsi come i banchi si relazionano ai negri, ma credo che si potrebbe ribaltare questa importante comparazione, e dire quindi che i negri (gli albanesi, i romeni, i rom) sono le donne del mondo, dato che nei nostri rapporti tra culture spesso tendiamo a sessualizzare la relazione, facendo diventare una cultura “il maschio” e l’altra “la femmina”. Non dico ovviamente nulla di particolarmente nuovo, ma credo che questa regola generale vada declinata con attenzione per comprendere molti casi specifici della cronaca corrente nel nostro paese (e in molti altri paesi). Gli immigrati nel nostro paese sono spesso ridotti a uno stato di subalternità coatta: non partecipano pienamente alla vita civile essendo privi di diritto di voto, sono spesso ricattabili con il permesso di soggiorno, che dipende dalla condizione lavorativa, per cui spesso accettano lavori sottopagati ma stabili; sono generalmente spinti ad abbassare la testa, a presentarsi con il cappello in mano, a obbedire. Questa condizione viene spesso tradotta simbolicamente in un segnale di femminilità, di femmilinizzazione.
Il punto chiave è che le relazioni di potere tra gruppi non paritari vengono tradotte simbolicamente come fossero relazioni di genere. Questi rapporti, proprio perché gestiti simbolicamente, sono estremamente sottili e possono dar adito a continui “malintesi” tra i diversi soggetti in relazione. Nel nostro sistema di rapporti sociali, i gruppi di “immigrati” vengono spesso ridotti fantasmaticamente allo stato femminile (da cui l’esotismo/erotismo che promanerebbe da molti di questi gruppi), mentre i residenti si sentono nella posizione maschile di dominio. Questo significa che da un lato gli italiani si sentano spesso nella condizione implicita di superiorità (come osano, come si permettono, dove credono d’essere) anche di fronte a comportamenti che espletati da altri concittadini non susciterebbero un senso di oltraggio; d’altro canto, gli immigrati costretti in questo condizione minoritaria possono reagire mostrando le palle, esponendo cioè un senso di rivalsa che li sradichi simbolicamente dalla condizione di sottomissione in cui si sentono posti a forza.
Ripensiamo alla scena che si è svolta alla stazione Anagnina: un maschio italiano e una donna romena entrano in attrito per una questione di coda al tabaccaio. Può darsi addirittura che la donna abbia maturato nel corso del suo soggiorno a Roma uno stile comportamentale combattivo, per non cadere sistematicamente nella doppia sottomissione immigrata/donna, e sicuramente l’italiano aveva di suo una serie di precedenti di comportamento violento. Cos’è successo, dal punto di vista simbolico, nel loro diverbio? La donna, proprio per rimarcare pubblicamente la sua condizione non subalterna, potrebbe aver scavalcato la coda dal tabaccaio, un comportamento percepito come aggressivo e prevaricatore da parte di chiunque. Ma se quel chiunque è un uomo italiano che vede nelle donne un soggetto debole “che dovrebbe stare al suo posto” e negli immigrati la versione “collettiva” di quel soggetto, le conseguenze possono essere terribili.
Il giovane italiano, di per sé già convinto che gli immigrati e le donne sono soggetti inferiori che vanno tenuti a bada, si trova di fronte a un comportamento del tutto spiazzante: una donna immigrata che “si comporta da uomo” pur ovviamente non avendone la forza fisica. Alessio Burtone, semplicemente, si sente oltraggiato nel suo sistema simbolico dal comportamento di Maricica Hahaianu . La donna immigrata, comportandosi a quel modo, violando la fila, viola la gerarchia sociale del giovane, sovverte la sua geografia dei rapporti di potere. La donna, semplicemente non può comportarsi a quel modo.
Una volta lasciata la scena del diverbio, i due si ritrovano affiancati verso l’uscita. Non so se questo secondo incontro è casuale o un proseguimento involontario del primo, ma non sarei sorpreso se si sia trattato di un vero appostamento da parte del giovane, che doveva in qualche modo ripristinare la situazione, completamente uscita dall’equilibro dei “giusti” rapporti di potere. Il giovane e la donna sono affiancati, probabilmente si scambiano ulteriori insulti, si vede dal filmato che lui a un certo punto le sputa, un gesto tipicamente dettato dal disprezzo. La donna a quel punto, quasi come un riflesso condizionato, per mantenere la sua posizione “maschile” di non sottomissione alza la mano verso l’uomo, che facilmente la scansa per poi colpire a sua volta protendendo con forza il braccio sinistro. La donna, colpita al volto, cade come sacco battendo violentemente il capo sul pavimento. L’uomo, raccolte le sue cose, se ne va.
Dal suo punto di vista, non ha fatto nulla di male, forse può aver esagerato dato che donna è esanime a terra, ma nella sua ottica Alessio Burtone non ha fatto altro che ristabilire il giusto equilibro nei rapporti tra un uomo italiano (quindi doppiamente virile) e una donna romena (quindi doppiamente femminile).
La “naturalezza” di questa visione (un grande insegnamento dell’antropologia culturale è che tutte le visioni ideologiche sono percepite come naturali) è confermata anche dal secondo oltraggio di questa storia terribile, vale a dire quello degli amici di Burtone che al momento del suo arresto si sono verbalmente scagliati contro le forze dell’ordine (Infami! Tutto questo per una puttana romena!) e contro le istituzioni (Alemanno sindaco di Bucarest!). Lo sdegno percepito nella rete sociale di Alessio Burtone è lo stesso del Burtone quando ha colpito la donna: come si permettono? Ma non hanno capito che io non volevo uccidere nessuno, tanto meno una “puttana romena”, volevo solo “darle una lezione”, ripristinare l’ordine naturale delle gerarchie sociali (per cui gli immigrati è giusto che obbediscano a noi italiani come è giusto che le donne obbediscano agli uomini). Non volevo ucciderla, e che il fatto sia successo mi dispiace, ma io non posso avere alcuna colpa (non ha senso dunque che mi portiate in galera) in quanto non sono responsabile di quel che è successo perché se ognuno fosse stato simbolicamente al suo posto non sarebbe successo nulla. E quella stronza ha alzato la testa, non è stata zitta e buona come devono fare gli immigrati che vogliono integrarsi e le donne perbene…
L’ovvia verità di questa mia lettura è confermata da un esperimento fittizio che ognuno di noi può fare: cosa sarebbe successo se l’uomo fosse stato romeno e la donna ammazzata fosse stata italiana? Sarebbe partita una nuova caccia allo straniero, al romeno, e pensate solo agli editoriali sulla Padania, sul Giornale, sul Tempo, in quello spazio dell’opinione pubblica che più saldamente si aggrappa alla stereotipia dell’opposizione maschile/femminile per descrivere i rapporti tra culture.

Per concludere, non è vero che si è trattato solo di un caso di stupida violenza, in cui il razzismo e il conflitto etnico non c’entrano nulla. I rapporti tra culture sono sempre più filtrati da immaginari come quello che ho sommariamente descritto, in una direzione e nell’altra. Sono convinto che l’alto numero di stupri perpetrati da stranieri, non solo su donne italiane ma in generale (la percentuale di reati sessuali commessi da stranieri è attorno al 40%, molto superiore alla percentuale di stranieri che è di circa il 7%) si deve ricondurre a questo stesso tipo di argomentazione simbolica, ribaltata di segno. Costantemente umiliati e sottomessi simbolicamente, quei cittadini stranieri più sensibili alla questione di genere, più urtati cioè dalla femminilizzazione cui si sentono sottoposti e più propensi a leggere la loro femminilizzazione come una degradazione, possono reagire praticando l’azione virile per eccellenza, vale a dire lo stupro, per rimarcare la loro distanza dallo sguardo egemonico che li umilia.
Stiamo andando verso un mondo in cui questi incroci di sistemi di valori che producono tensioni sociali e comportamenti criminali stanno diventando sempre più comuni. Non si tratta di stabilire se effettivamente, se oggettivamente ci siano delle differenze tra italiani e romeni, tra immigrati e autoctoni. Possiamo, noi analisti, noi politici, essere tutti bellamente convinti che tutti gli esseri umani sono uguali e che le differenze di sensibilità e intelligenza si distribuiscono dentro ogni gruppo sociale e culturale più che tra i diversi gruppi (e io la penso esattamente così, ci mancherebbe). Ma nella vita di tutti i giorni, mentre prendiamo le sigarette o ai semafori delle nostre città, mentre lasciamo i nostri figli al nido o li andiamo a prendere a lezione di danza, ci comportiamo come se il mondo sociale fosse fatto tutto di differenze nitide, io/tu, noi/loro, e come se queste differenze il più delle volte potessero essere poste in una graduatoria precisa, una classifica dei ranghi sociali. Ognuno di noi stila la sua classifica con ogni gesto, con ogni interazione, e quando le nostre rispettive classifiche connfliggono (tu devi stare lì / io voglio stare qui) e queste divergenze si combinano a profondi dislivelli di potere (il polso di una donna, il bicipite di un uomo; l’inceppamento di una lingua appresa da stranieri, la confidenza di una lingua madre; la confidenza di essere a casa, lo smarrimento di essere lontani) allora si può arrivare alla tragedia che spezza la vita di una donna per una parola di troppo.
Penso che abbiamo il sacrosanto dovere di capire meglio questo tipo di interazioni simboliche, capirne a fondo i meccanismi con una seria ricerca sociale.
Giustamente chiediamo più investimenti per la ricerca in settori come la medicina: c’è bisogno di maggiori conoscenze per sconfiggere gravi malattie che ci colpiscono come individui. Ma io dico che è ora di chiedere più attenzione per la ricerca sociale, perché quel che è successo nella metropolitana di Roma non è stato un colpo del destino, non è stata una pazzia estemporanea. È stato invece il frutto canceroso di un conflitto sociale sempre meno strisciante, che ruota attorno alla convinzione che l’altro debba assumere necessariamente la posizione che io gli attribuisco. Un conflitto che si nutre (in tutte le direzioni) della convinzione “etnica” della diversità irriducibile dell’altro. Non conta, purtroppo, che poi la diversità non sia mai, di fatto, così irriducibile come viene pensata. Viviamo in un mondo (purtroppo a volte, per fortuna altre) che rende vere le conseguenze di quel che crediamo, anche se quel che crediamo non è vero. Sicuramente Alessio e Maricica non erano così diversi, così assolutamente diversi come si sono immaginati l’un l’altro, nel tempo brevissimo e terribile della loro interazione. Ma di certo essersi pensati assolutamente diversi tali li ha resi, diversi per sempre: una colpita a morte, l’altro responsabile di un dolore sconfinato.